fegato con cipolla

Cucinare il fegato: ricette regionali

Quando si parla di ricette a base di fegato, molti indietreggiano terrorizzati. In effetti, che sia di pollo, maiale, oca, coniglio o vitello, si tratta di una parte poco pregiata dell’animale. Tuttavia, questa pietanza fu molto utilizzata in passato nelle cucine popolari, tanto da far parte di alcune tra le ricette più tradizionali della cucina italiana. Ecco perché, ancora oggi, molte regioni vantano numerose ricette a base di fegato, che offrono ispirazione per chi vuole avvicinarsi di più a questa pietanza.

Le ricette regionali

Ecco alcune ricette tradizionali regionali tra le più conosciute, a base di fegato.

Fegato alla genovese

La ricetta del fegato alla genovese si basa sull’abbinamento a contrasto tra la carne, dal gusto saporito, e le cipolle dal sapore più delicato, preferibilmente bianche. Questa preparazione è arricchita dall’agliata: una crema di accompagnamento molto sfiziosa a base di aglio, mollica di pane, aceto e olio extravergine d’oliva.

Fegato alla veneziana

Si tratta di uno dei piatti tipici della regione Veneto che, come la ricetta ligure, propone l’utilizzo delle cipolle bianche. L’origine di questa preparazione risale agli antichi romani, i quali utilizzavano frutta profumata per coprire il forte odore della carne. Da quest’usanza, ha preso piede l’impiego delle cipolle, molto più facili da reperire rispetto alla frutta di stagione. La ricetta veneziana si basa anche su burro, olio, prezzemolo e talvolta l’aceto.

Fegato alla vicentina

Rimanendo in Veneto, si trovano varie ricette a base di fegato. Tra queste spicca anche la preparazione tipica della zona di Vicenza. Come per le altre ricette menzionate, anche questa prevede l’uso delle cipolle bianche per contrastare il tono saporito del fegato. Tuttavia, si differenzia nella scelta dell’ingrediente per sfumare la carne: in questo caso, infatti, non si utilizza mai l’aceto, ma lo si rimpiazza con del buon vino bianco. Nello specifico, il vino si inserisce una volta che le cipolle sono ben rosolate nel burro.

Fegato alla fiorentina

Anche in Toscana non mancano gustose ricette tradizionali per esaltare il sapore deciso del fegato. In questa regione, la preparazione prevede che il fegato sia cotto in padella con olio extravergine di oliva e salvia. Normalmente è consigliabile utilizzare quello di vitello che offre i migliori valori nutrizionali. Tuttavia, questa ricetta ammette anche l’utilizzo di fegatini di pollo, che sono molto più economici e facilmente reperibili. Indipendentemente dalla scelta della carne, la ricetta fiorentina prevede che il fegato sia tagliato a fettine non troppo sottili e passato prima nella farina. In questo modo il risultato finale sarà molto più cremoso.

Paté di fegatini

Un’altra ricetta per cui la Toscana è famosa è il paté di fegatini. Per questa preparazione si utilizza nello specifico il fegatino di pollo, che viene frullato insieme a olio extravergine d’oliva, burro, cipolle bianche, salvia, brodo di pollo, capperi, vino bianco secco e pasta di acciughe. Questi sono gli ingredienti della ricetta base ma possono essere tranquillamente sostituiti o arricchiti in base ai gusti personali. Questo paté è perfetto per accompagnare il tipico pane sciapo toscano, preventivamente tostato per essere insaporito con questa perfetta crema da spalmare. Ecco che, con la sua semplice preparazione, il celebre “crostino” è divenuto indispensabile durante le grandi occasioni o le feste con amici o familiari.

Paté di fegato

Un’ultima specialità da menzionare deriva, invece, dalla cucina francese ovvero dal famoso paté di fegato d’oca (chiamato “foie gras“). Anche in Italia esiste una versione tradizionale, che invece si basa sul fegato di vitello. Anche questa ricetta è tipica della tradizione veneta. Un elemento fondamentale è la cipolla stufata in padella con il fegato tagliato a fettine. Tutti gli ingredienti sono frullati e fatti solidificare in un apposito stampo per poi essere serviti spalmati su del pane tostato.

zucca in agrodolce

Zucca in agrodolce: il “fegato dei poveri”

L’autunno e l’inverno ci regalano ogni anno delle verdure sane e versatili che ci permettono di realizzare ricette nuove o indissolubilmente legate alla tradizione e, in tal senso, un esempio, perfetto è quello offerto dalla zucca. Basti solo pensare all’infinità di preparazioni che è possibile creare – sia salate che dolci – con essa per rendersi conto di quanto la zucca riesca ad accontentare qualsiasi tipo di palato e gusti, sia nei grandi che nei più piccoli.
Ci sono poi alcune regioni italiane che, più di altre, conservano una lunga tradizione culinaria legata alla preparazione della zucca e, a tal proposito, la Sicilia mantiene sicuramente un primato di tutto rispetto.


Zucca in agrodolce: una ricetta tipica della tradizione siciliana

Probabilmente nessun’altra regione italiana come la Sicilia conserva un patrimonio gastronomico e culinario così ricco e variegato, frutto di contaminazioni interne ed esterne che hanno fatto della sua cucina un esempio in tutto il mondo. Anche per quanto riguarda la preparazione della zucca, è possibile trovare una varietà di ricette difficilmente rintracciabile altrove.
Ma ce n’è una in particolare che, nonostante abbia origini antichissime, ancora oggi è molto apprezzata e si presta ad essere gustata all’interno di varie portate. Stiamo parlando della zucca in agrodolce che deve il suo nome a quel tipico connubio che la caratterizza rappresentato dalla dolcezza di questa verdura e l’aceto che le dona un gusto complessivo stuzzicante e piacevole. Si tratta di una prelibatezza che può essere servita sia come un semplice contorno in accompagnamento ad un secondo di carne sia come antipasto appetitoso.

I siciliani conoscono bene questo piatto, tramandato di generazione in generazione all’interno di buona parte delle famiglie che ne conservano gelosamente la propria ricetta personale, e sono soliti chiamarlo “o ficatu ri setti cannola“, letteralmente il fegato dei sette rubinetti. Ma perché, quindi, questo piatto veniva e viene definito fegato se, in realtà, si tratta di zucca? Cerchiamo di capire meglio insieme l’origine e la storia di questo nome.


Origine

La ricetta della zucca in agrodolce può essere fatta risalire addirittura al XIII secolo e alla dominazione degli Angioini sui territori siciliani. In particolare, questa preparazione si diffuse nella città di Palermo all’interno di uno dei suoi mercati più vecchi e popolari – la Vucciria – dove era possibile trovare prodotti di alta qualità, primizie, frutta e verdura fresche e, ovviamente, carne di prima qualità, tutti prodotti molto apprezzati e ricercati da coloro che provenivano non solo da Palermo, ma da varie parti della Sicilia per approvvigionarsi al mercato della Vucciria.
Le prelibatezze presenti in questo mercato erano, quindi, molteplici e alcune di esse potevano essere acquistate solo da persone ricche che potevano permettersi, ad esempio, una o più fette di fegato tanto conosciuto e apprezzato all’interno della cucina siciliana. Esso, infatti, veniva considerato una leccornia da preparare principalmente fritto e, successivamente, marinato in agrodolce insieme all’aceto e ad abbondante menta.
Chi non poteva permettersi di acquistare il fegato, poteva ricorrere ad un’alternativa più economica e prelibata quasi quanto l’originale. Infatti, erano gli stessi ambulanti del mercato della Vucciria che preparavano per i loro clienti meno abbienti fette di zucca cucinata esattamente come il fegato in agrodolce e la vendevano in quella parte del mercato circondata da sette fontane dotate di altrettanti rubinetti.
Ecco, allora, perché la zucca in agrodolce veniva e viene chiamata dai palermitani il fegato dei sette rubinetti.

roastbeef

Roastbeef: storia e curiosità

Il roast beef è un tipico piatto inglese conosciuto, ormai, da un paio di secoli e apprezzato anche in diverse altre parti del mondo da chi ama gustare un buon taglio di manzo cucinato con cura nella cottura e, soprattutto, con tutto un insieme di spezie e odori che ne garantiscono bontà persistente.
Si parlava di cottura e, infatti, il classico roast beef si presenta quasi crudo al centro e con un colore che si avvicina al rosso, mentre coloro che non apprezzano particolarmente la carne poco cotta possono optare per una preparazione più prolungata che gli dona un colore sul nocciola all’interno e dorato all’esterno.
Ma vediamo di conoscere meglio questo piatto così versatile e adatto sia al classico pranzo della domenica o delle grandi occasioni sia ad essere utilizzato come piatto da gustare anche dopo un giorno o due grazie alla sua facilità di conservazione.

Roastbeef: origine

La parola inglese Roast Beef significa, letteralmente, “bue arrostito” e, per prepararlo, viene usata principalmente parte della lombata di vitello, ma anche il filetto, il controfiletto o la spalla. Si ha notizia di questa preparazione già durante il Quattrocento, ma la tradizione domenicale del roast beef di diffuse soprattutto durante l’Ottocento, quando era molto diffusa la convinzione che si dovesse mangiare molta carne a settimana per rimanere in salute.

Diffusione del roastbeef in Italia

In pochi anni questa preparazione oltrepassò i confini britannici e arrivò anche in Italia dove i toscani furono i primi ad apprezzarne il gusto e la preparazione – non dimentichiamo che ancora oggi la classica bistecca Fiorentina viene gustata praticamente semicruda proprio come si presenta la parte centrale del roast beef – tanto che, ancora oggi, il termine “rosbiffe” viene utilizzato comunemente per indicare questo piatto.

A riprova della diffusione del roast beef in Italia già dalla metà dell’Ottocento, c’è uno scritto inviato da Mazzini quando si trovava a Londra e che ne parla come del piatto principale durante i pranzi domenicali e conviviali, ma non è da escludere anche l’ipotesi che a diffonderne la ricetta in Italia siano stati gli stessi inglesi che qui soggiornavano.
Ancora oggi, in Inghilterra come altrove, il roast beef viene preparato sia per le grandi occasioni che per i pasti di tutti i giorni, complice anche il fatto che si tratta di un piatto i cui avanzi possono essere facilmente conservati e consumati anche nei giorni successivi o riutilizzati per altre preparazioni. In particolare, negli ultimi anni è diventato sempre più frequente l’utilizzo di alcune fettine di roast beef all’interno di panini conditi con altre spezie o pietanze per creare un piatto unico che può essere anche consumato a lavoro o in piedi al bar, ma anche per realizzare vere e proprie proposte gourmet.

Come prepararlo

Il segreto per ottenere un buon roast beef è sicuramente partire da un pezzo di carne di ottima qualità, ma è di fondamentale importanza anche tenere d’occhio i tempi di cottura in modo da ottenere quell’interno rosa tipico di questa preparazione che conserva buona parte del suo sapore succulento. La questione della cottura viene spesso presa come un ostacolo insormontabile, succede così che in molti evitano di preparare il roast beef per paura di sbagliare i tempi e rovinare un buon pezzo di carne.
In realtà, basta seguire poche e semplici accortezze per ottenere una carne rosa al centro e cotta all’esterno. L’ideale è far cuocere la carne subito ad un’alta temperatura – tipo 220 gradi – e, man mano, abbassare il calore per i successivi 30 minuti: in questo modo la parte interna rimarrà morbida, succosa e tenera, mentre la parte esterna diventerà croccante e saporita.

primosale

Primosale siciliano: caratteristiche di un formaggio delizioso

La ricchezza della cultura gastronomica italiana è ampiamente riconosciuta a livello mondiale e, accanto ad un’infinità di prodotti dall’eccellenza indiscussa, sicuramente i formaggi, come il primosale, meritano un posto d’onore per l’elevata qualità delle materie prime che vengono utilizzate per la loro preparazione e per le ricette, spesso, centenarie che vengono seguite per realizzarli e che vengono tramandate di generazione in generazione.
Infatti, la presenza di così tanti tipi di formaggi presenti e prodotti sul nostro territorio è dovuta soprattutto a gesti semplici e sapienti che vengono ripetuti da secoli utilizzando gli ingredienti genuini che ogni territorio offre rendendo il formaggio unico a livello gustativo.


Formaggio Primosale: origine e realizzazione

È proprio questo il caso del Primosale siciliano che, conosciuto già all’epoca dei Greci e dei Romani, è uno dei formaggi più antichi tra quelli realizzati sul territorio italiano. Si racconta che sia stato realizzato per la prima volta nell’antica Mesopotamia e, infatti, anche lo stesso Omero nella sua Odissea parla di un formaggio a pasta compatta che veniva conservato all’interno di canestri di giunco.

Il Primosale siciliano deve il suo sapore intenso e particolare al latte prodotto nei diversi territori della regione e agli allevamenti più diffusi al loro interno che lavorano materie prime di elevata qualità e, soprattutto, a chilometro zero. Solitamente si pensa che il Primosale siciliano venga prodotto utilizzando solo ed esclusivamente latte crudo ovino, ma in realtà può essere impiegato anche il latte di mucca o di capra – o tutti e tre insieme -, l’importante è avere a disposizione un latte che provenga da uno specifico territorio siciliano e che sia prodotto da animali la cui crescita e alimentazione sia il più naturale possibile.

A tal proposito, un valido esempio è quello offerto dalla pecora della Valle del Belice che, più di altre, si adatta a qualsiasi condizione climatica offerta dalla regione Sicilia – spesso soggetta anche a lunghi periodi di siccità – riuscendo sempre ad offrire ottime prestazioni in termini di qualità e quantità per quanto riguarda la produzione del latte. Inoltre, anche quando l’alimentazione offerta dai pascoli scarseggia, la pecora della Valle del Belice attinge alle sue riserve corporee per produrre un ottimo latte tra i più adatti al processo di caseificazione.

Produzione del Primosale siciliano

Ancora oggi sono in tanti i caseifici siciliani che lavorano e impastano la cagliata ottenuta dalla coagulazione del latte utilizzando soprattutto le mani e pochi strumenti così come vuole la tradizione centenaria che si tramanda di generazione in generazione e che è garanzia di qualità ed esperienza. Dopo essere stato cotto per circa tre ore, il formaggio viene salato – preferibilmente con sale proveniente dalle saline di Trapani – e riposto in particolari canestri dentro i quali riposerà all’incirca dieci giorni. A differenza di quanto avviene con il pecorino che subisce altre fasi di salatura, il Primosale – e a ciò si deve il suo nome – è pronto per essere conservato e consumato già dopo la sua prima e unica salatura.


Principali caratteristiche

A prima vista il Primosale siciliano appare di forma cilindrica o lievemente concava, dotato di una crosta sottile di colore bianco sporco e leggermente rugosa a causa dei segni lasciati dal canestro dentro cui è stato conservato. Tagliandolo è possibile rendersi conto della morbidezza e, allo stesso tempo, della compattezza che lo caratterizza insieme ad una colorazione bianco latte che riporta alla mente sapori lontani e genuini. E proprio per quanto riguarda il sapore, è possibile coglierne al primo assaggio tutta la sapidità derivante dal latte prodotto in questi territori e la dolcezza tipica del latte fresco. Inoltre, nei pezzi che hanno subito una maggiore stagionatura, è possibile trovare la stessa scioglievolezza accompagnata da un sapore più fruttato e piccante.

spaghetti alla carrettiera

Spaghetti alla carrettiera: curiosità

La lunga e variegata tradizione culinaria siciliana è riconosciuta non solo nel resto d’Italia, ma, con gli anni, è riuscita ad imporsi a livello mondiale tanto che molte sue ricette e preparazioni tipiche sono diventate conosciute e riproposte a diverse latitudini. E non c’è da stupirsi di questo vista la qualità delle materie prime di questo territorio e l’inventiva portata, nei secoli, da diversi popoli che hanno conquistato la Sicilia rendendola il luogo ideale per sempre nuove sperimentazioni e contaminazioni.

Un esempio tipico a riguardo è quello offerto dai famosissimi spaghetti alla carrettiera di cui si conoscono diverse varianti tipiche di alcuni territori italiani, ma la cui unica e originale ricetta nasce dall’inventiva siciliana dei primi anni del ‘900.

Spaghetti alla carrettiera: storia

Infatti, la ricetta degli spaghetti alla carrettiera ha avuto origine nella Sicilia orientale – e, più precisamente, nella zona della Valle dei Platani – agli inizi del secolo scorso grazie alla creatività dei carrettieri siciliani. Erano dei veri e propri trasportatori che, con il loro carretto trainato da un asino o da un cavallo, percorrevano la Sicilia per consegnare vari tipi di merci, ma non era insolito che trasportassero anche dei viaggiatori dalla campagna alle città e viceversa.

Trovandosi sempre in viaggio e non avendo molte disponibilità economiche che permettessero loro di fermarsi a mangiare nelle locande che incontravano lungo il loro percorso, i carrettieri erano costretti a prepararsi da soli dei pasti semplici realizzati con pochi ingredienti portati da casa o consegnati loro dai clienti come pagamento per le loro prestazioni e che, soprattutto, non deperissero facilmente.

Quindi, erano soliti avere sempre a portata di mano durante i loro viaggi alcuni ingredienti per preparare velocemente pasti nutrienti e, allo stesso tempo, gustosi come, ad esempio, della pasta, il sale, l’olio, l’aglio, il peperoncino, del formaggio pecorino e qualche erba aromatica che potevano anche trovare lungo il loro tragitto.
E proprio grazie a questi ingredienti semplici e gustosi che ancora oggi ci deliziano, i carrettieri diedero origine alla ricetta degli spaghetti alla carrettiera sempre così popolare e invitante.

Ingredienti poveri per un gusto eccezionale

Com’è facile intuire si tratta di un piatto della tradizione che combina ingredienti poveri, ma, quando sono di qualità, ricchi di un sapore estremamente gustoso.
Infatti, nella sua ricetta originale, gli spaghetti alla carrettiera si preparano unendo all’interno di un unico condimento l’olio, l’aglio crudo, il pepe e il pecorino grattugiato. Questi ingredienti potrebbero far venire alla mente altre ricette, ma a differenza, ad esempio, degli spaghetti aglio, olio e peperoncino, quelli alla carrettiera prevedono l’utilizzo dell’aglio a crudo e non lasciato rosolare nell’olio.
In questo modo la pasta risulta più digeribile e si evita l’effetto di pesantezza che l’aglio potrebbe restituire all’intero piatto.

In breve tempo questo tipo di preparazione della pasta inventato dai carrettieri della Sicilia orientale e della Valle dei Platani si diffuse anche nelle zone collinari limitrofe dove, però, la pasta venne ulteriormente arricchita aggiungendo dei pomodori pelati. Inoltre, negli anni la ricetta degli spaghetti alla carrettiera oltrepassò i confini siciliani raggiungendo anche altre regioni d’Italia che la personalizzarono in base alle proprie tradizioni e ai propri gusti tipici. Ad esempio, anche la cucina romana prevede una sua personalissima ricetta degli spaghetti alla carrettiera, ma molto più ricca e corposa, infatti, oltre agli ingredienti già citati, la versione romana prevede l’aggiunta della pancetta, dei funghi porcini e del tonno sott’olio.

quarume - caldume

La caldume e i suoi segreti

La caldume o quarume: il piatto tipico della tradizione siciliana

Nelle strade di Palermo è la star: è il più conosciuto nello street food tra i siciliani della costa nord occidentale oltre ad alti noti e tipici come il pane ca’meusa, lo sfincione o le panelle. La Caldume è uno stufato di frattaglie e interiora fatto bollire per ore al fine di far esaltare tutti i sapori dei vari tagli di carne. Affonda le radici nella storia: il suo nome deriva dal greco antico Cholàdes, che significa frattaglie, dunque potrebbe essere un piatto che risalirebbe agli albori delle colonie greche della Sicilia.

Per acquistare la caldume in città difficilmente la si trova in ristoranti, ma essendo cibo da strada e tipica di carretti o botteghe, anche dette putie, soprattutto all’interno dei mercati rionali di Ballarò, Vuccinara ed altri . Il modo più genuino e saporito è quello di acquistare le frattaglie all’interno di macellerie storiche, come la Macelleria Sparacello che vanta qualità dei suoi prodotti da più di 30 anni. A conduzione famigliare, la macelleria è dedita alla ricerca dei veri sapori siciliani e, consapevoli del valore del cibo e del rispetto verso questa materia prima: quindi quale miglior posto per acquistare la Caldume?

Come preparare la Caldume

Il primo passo per preparare la caldume, in siciliano Quarume, è quello di acquistare frattaglie di vitello:

  • Omaso, ovvero il terzo sacco dello stomaco. La forma ricorda le pagine di un giornale e per questo motivo spesso viene chiamato libretto, foglio, oppure opuscolo.
  • Abomaso, il vero stomaco che si divide in due parti: la gola, dal sapore intenso distinguibile per delle creste e la parte grassa, cosiddetta spannocchia.
  • Reticolo, detto così per il suo aspetto spugnoso e con la forma un cappello. È la parte più minuta dello stomaco ed ha un sapore abbastanza deciso.
  • Trippa e coratella, ovvero l’insieme di fegato, reni, cuore, polmoni e milza, tutti organi interni dal sapore deciso ma dalla consistenza delicata e a volte asciutta.

Gli ingredienti per la vera Quarume di Palermo

  • 2 kg di interiora di vitello
  • due cipolle di medie dimensioni
  • carote
  • pomodori
  • un gambo sedano
  • foglie di prezzemolo
  • sale marino quanto basta
  • pepe nero macinato al momento
  • il succo di due limoni

La preparazione consiste nel bollire separatamente le frattaglie per circa 3 ore. Di conseguenza bisognerà assaggiare di volta in volta, perchè ogni tipo di frattaglia ha una sua cottura ma, nel dubbio, assaggiare la trippa può essere un consiglio sensato in quanto potrebbe essere il taglio che necessita di più tempo di cottura.

Il tutto va unito e fatto bollire con sedano, carote, cipolla, chiodi di garofano, prezzemolo e pomodoro cercando di mescolare di tanto in tanto. In sostanza si tratta di un bollito di carne o meglio di frattaglie e va mangiato in brodo. Ma in Sicilia, da Catania a Palermo tutto può diventare un panino da street food: la Quarume nelle strade di Palermo viene consumata come condimento di un panino con l’aggiunta di sale, limone e pepe.

Vino rosato o rosso preferibilmente siciliano come il Nero D’avola o il Mascalese sono perfetti per accompagnare questo tradizionale piatto. In verità in passato, il piatto univa aristocratici e popolo nella convivialità: di solito, i carretti che preparavano e vendevano i panini con la Caldume non avevano vino, birra o bevande. A spuntino ultimato, era doveroso proseguire insieme verso l’osteria a bere vino o una pinta di birra, che aiutavano a digerire meglio il boccone.

Le interiora non sono lessate in una pentola qualsiasi ma nella cosiddetta quarara, ovvero la pentola di antica tradizione in cui di solito viene cotto il polpo.

carne di agnello

Agnello: alcuni suggerimenti per cucinarlo

L’agnello: il tipo di carne

Spesso si definisce l’agnello come un tipo di carne pesante ma, essendo ricca di proteine digeribili, è una carne leggera. Ci sono due diversi tipi di agnello.

L’abbacchio è l’agnellino da latte contraddistinto per la carne molto tenera, mentre l’agnello bianco distinguibile per il gusto forte e deciso. Oltre all’età si può distinguere per il suo nutrimento: l’abbacchio si ciba solo di latte materno, mentre l’agnello mangia erba.

Per tradizione in Italia si associa l’agnello alle festività pasquali ma in verità è una delle più comuni nel Mediterraneo. I tagli usati in cucina sono diversi e ad ognuno è corrisposto un modo di cucinare che ne esalta i sapori:

  • il cosciotto viene spesso utilizzato per l’arrosto ma anche farcito;
  • la spalla è il taglio più ricercato poiché è ottimo in qualsiasi modo lo si cucina;
  • il petto di agnello, molto grasso, è utile per ricavare le puntine da grigliare;
  • la sella invece spesso scelta per la conformazione scenografica, spesso usato nei ristoranti e cotto arrosto.

Consigli per cucinare l’agnello

Per rimuovere l’odore selvatico tipico di questa carne il primo passo e farla marinare per molto tempo. Proprio per questo motivo è bene calcolare le tempistiche e mettere in conto il lungo tempo di marinatura.

La carne va messa in un contenitore con erbe aromatiche come il timo, rosmarino, menta e salvia ma anche pepe, cipolla, aglio, olio e vino bianco. Dopo aver chiuso con una pellicola il contenitore bisogna avere la cura di girare la carne di tanto in tanto.

Ma ora vediamo i modi per preparare un ottimo arrosto:

Agnello arrosto nel forno

Classico dei pranzi domenicali nel sud Italia spesso viene accompagnato da patate o contorni di verdure. Il taglio preferibile per questa tecnica è la spalla o il cosciotto. Il tutto consiste nel mettere in una teglia la carne con olio, aglio, salvia e rosmarino. Dopo averlo fatto rosolare, aggiungere del vino e cuocerlo a 180 gradi per 50 minuti. Infine per dorarlo e renderlo più croccante altri 15 minuti a 200 gradi renderanno la carne ottima e gustosa. Essenziale è mangiare la carne ben calda e con contorni che non coprano eccessivamente il sapore. Il tutto piò essere accompagnato da un buon bicchiere di vino rosso.

Agnello alla brace

È sicuramente il modo più rapido per cucinare questo tipo di carne. Questa tecnica è consigliabile per gli amanti del sapore forte e deciso dell’agnello dato che ne esalta notevolmente il sapore. Un trucco per non rendere la carne asciutta è quella di girare la carne sul barbecue con delle pinze e non con la forchetta, perché bucando la carne ne uscirà il grasso che la rende succosa. In assenza di brace è possibile cuocere in una padella antiaderente molto calda, ma bisogna sempre ricordarsi di marinare la materia prima. Se non si gradisce molto il sapore deciso un po’ di limone lo attenuerà. Anche in questo caso è consigliabile un buon vino rosso poco corposo.

Agnello a scottadito

Per cucinare l’agnello a scottadito bisogna seguire piccoli accorgimenti ma niente di complicato. In primis va scelta con attenzione una carne di qualità e con un po’ di grasso in modo da rendere il boccone succulento un vero trionfo per il palato. Tra i tagli di agnello per questa tecnica è meglio scegliere cosciotto o costine. Quando si tratta di abbacchio la tradizione vuole che sia servita leggermente al sangue ma spesso i ristoranti lo realizzano ben cotto e utilizzano la sella. Per evitare la sensazione pastosa bisogna avere il fuoco molto alto e va servito così caldo da bruciarsi le dita; le dita perché va mangiato con le mani ovviamente. Questa tecnica è la più naturale in assoluto perché servono solo 3 elementi: fuoco, carne e un pizzico di sale. Tra una costina e un cosciotto è bene sorseggiare un po’ di vino rosso o rosato, non solo perchè si accompagna benissimo ma anche per pulire la bocca da un bollente e succulento morso di agnello.

parmigiana di melanzane

La parmigiana e la sua origine contesa

Ci sono due grandi verità che riguardano i piatti del nostro Paese: la prima è che sono fra i più buoni al mondo, la seconda è che spesso la loro origine è contesa fra le varie regioni italiane.

È questo il caso della parmigiana di melanzane o delle melanzane alla parmigiana, due modi leggermente diversi di definire lo stesso piatto che, però, ad orecchio attento fanno intendere due diverse aree d’appartenenza. Il primo ci porta dritti a sud nel nostro Paese: in Sicilia. Il secondo invece nella terra del Parmigiano Reggiano: l’Emilia Romagna.

Ciò che è chiaro ad oggi è sicuramente il fatto che sia che vi troviate in Emilia Romagna, che in Sicilia, potrete gustarvi in entrambi i casi un’ottima parmigiana. Volendo però andarne a trovare la sua origine, non ci resta che cercare le risposte nelle fonti storiche che ci sono pervenute dal passato.

Le origini del termine parmigiana e il forte legame con la Sicilia

Doveroso, ai fini della nostra ricerca, è ricordare quando la melanzana ha fatto la sua prima comparsa in Italia. L’ortaggio, protagonista di questa disputa culinaria, ha fatto il suo avvento nel nostro Paese nel corso del 1400 con gli arabi, che la fecero arrivare a loro volta dall’India.
Si tratta di un indizio estremamente importante per la nostra indagine, perché, come sappiamo dai libri di storia, gli arabi iniziarono a fare le loro prime incursioni sul suolo italiano proprio in Sicilia.

Fatta questa dovuta premessa, è possibile adesso procedere con il nostro percorso etimologico della parola parmigiana.
Al contrario di come tanti potrebbero pensare, questo termine ci porta nuovamente in terra siciliana perché con: “parmiciana“, in dialetto, si intende persiana. Inoltre è proprio l’effetto del sovrapporsi dei listelli di legno ad ispirare per la preparazione di questo piatto ed è sempre per questo motivo, che in Sicilia, e più in generale nel Sud Italia, si sente parlare di parmigiana di melanzane e non di melanzane alla parmigiana.

Un’altra corrente etimologica del termine conduce invece alle origini della parola melanzana, poiché l’ortaggio in questione in lingua persiana era noto come “petrociana“. A supporto di quest’ipotesi vi è anche l’autorevolezza dell’Artusi che nell’Ottocento indicava la melanzana con “petrociana”.

Un ulteriore ed ultimo indizio che sembrerebbe condurci verso la Sicilia, come terra d’orgine della parmigiana, è la similitudine di questo piatto con la moussaka: melanzane fritte, cosparse di formaggio con l’aggiunta di carne macinata.

I dati a favore della pista siciliana, a questo punto, sembrerebbero esser sufficienti, ma prima di provare a pronunciarci in merito occorre avere un quadro più ampio.

Le testimonianze storiche

La prima testimonianze storica della parmigiana risale al Settecento con la ricetta del cuoco Vincenzo Corrado, il quale lavorava al servizio delle più grandi famiglie aristocratiche del regno di Napoli. Va detto però che la ricetta prevedeva le zucchine al posto delle melanzane.

La testimonianza che invece sembrerebbe esser la più attendibile è quella di Ippolito Cavalcanti, 1839, il quale, nella usa opera Cusina casarinola co la lengua napolitana, presenta una ricetta assai simile alla nostra contemporanea.

Entrambe le fonti storiche citate sembrerebbero inserire una terza regione contendente l’origine della parmigiana, ma in realtà è molto probabile che la versione napoletana abbia avuto origine da quella siciliana, per via dell’appartenenza allo stesso regno per lunghi tratti dei secoli passati.

Le possibili origini emiliane

L’utilizzo del Parmigiano e il forte richiamo con la città emiliana, fanno propendere per una nascita della parmigiana di melanzane proprio a Parma. Ciò di cui però occorre tenere conto è il fatto che il Parmigiano sia arrivato successivamente, perciò è corretto supporre che questo abbia col tempo sostituito il pecorino all’interno della ricetta.

Quello che invece non molti sanno è che tra il 1400 e il 1500, con il modo di dire: “cucinare alla maniera dei parmigiani“, si indicava un modo particolare di cuocere le verdure, tagliate a fette e sovrapposte le une sulle altre. Da questo modo di dire è molto probabile che siano nate le Melanzane alla parmigiana.


Analizzata anche la pista emiliana, possiamo dire di aver di fronte un quadro più completo. Sebbene non si possa aver la certezza assoluta, i dati che abbiamo a nostra disposizione propendo sicuramente verso un’origine siciliana del piatto ed un suo successivo sbarco in terra partenopea.

Benché non vi siano prove a riguardo, vi è ancora una possibilità che in un certo senso potrebbe metter d’accordo tutti. Si tratta del legame storico fra il Regno di Napoli e Sicilia e il ducato di Parma, dato dalla dinastia dei Borboni, i quali prima di entrare a Napoli governavano il ducato di Parma.
Chissà che magari sotto l’influenza della casata spagnola, parmigiani e siciliani non si siano incontrati e abbiano messo insieme le idee per la creazione di questo gustosissimo piatto?

panelle

Le panelle: storia di una delizia dello street food palermitano

Quando si parla di street food palermitano non si può non pensare alle panelle. Tipico cibo da strada della tradizione siciliana, le panelle sono delle frittelle di farina di ceci e acqua che spesso possono essere servite in mezzo ad una mafalda, ovvero due forme di pane dalla superficie croccante e ricoperta di semi di sesamo. Le panelle rappresentano il classico spuntino palermitano.

Storia della panelle

La storia delle panelle non è recente, ma anzi, esse sono figlie di una lunga tradizione. Già in epoca romana, infatti, la farina di ceci veniva ampiamente utilizzata sotto forma di polenta. La farina, mista ad acqua, veniva cotta sulla pietra all’interno di forni che erano utilizzati per la cottura del pane.

Oltre che nell’entroterra siculo, la farina di ceci era ben conosciuta e apprezzata anche dai greci e dagli indiani, come dagli arabi che la cuocevano sul fuoco. Probabilmente l’idea di friggere il composto è stata introdotta molto più tardi. Si pensa infatti che questa tecnica si sia sviluppata durante il periodo della dominazione francese del territorio siciliano da parte degli Angioini. Pare che i francesi apprezzassero molto il piatto tipico della nostra terra.

Nonostante la ricetta tradizionale non abbia subito alterazioni – gli ingredienti rimangono sempre gli stessi: acqua, farina e prezzemolo – negli anni sono state apportate moltissime modifiche e variazioni al tipico spuntino palermitano.

Rivisitazioni

Questa delizia infatti può essere gustata in molti modi diversi e le rivisitazioni proposte non potranno che stupirvi, come quella al finocchietto selvatico. Una tipica variante delle panelle è quella dolce e viene preparata ogni 13 dicembre per la festa di Santa Lucia. In questa occasione al composto originario vengono aggiunti anche lo zucchero e il burro o lo strutto. Per i più golosi è anche possibile assaggiare le panelle ripiene di crema pasticcera.

Macelleria Sparacello

La Macelleria Sparacello ha una tradizione lunga, proprio come quella delle panelle. E come lo spuntino tipico, anch’essa è legata al proprio territorio, alle tradizioni e soprattutto al buon cibo e ai prodotti della Sicilia.

Oltre ad una vastissima scelta di carni, provenienti da piccoli allevamenti siciliani, di salumi e formaggi tipici della Sicilia, sono immancabili i prodotti di cucina e gastronomia.
Le panelle sono al primo posto tra gli antipasti sfiziosi più richiesti da turisti e abitanti del posto. La tradizione è sempre al primo posto, ma il ricco assortimento di prodotti e ricette nasce anche da un sapiente incontro con la novità e con la voglia di essere aperti sempre a nuove esperienze.