La Salsiccia

“Origini della salsiccia”

La prima testimonianza storica sull’uso di insaccare nel budello di maiale la sua carne insieme a spezie e sale è dello storico romano Marco Terenzio Varrone, che ne attribuisce l’invenzione e l’uso ai Lucani: «Chiamano lucanica una carne tritata insaccata in un budello, perché i nostri soldati hanno appreso il modo di prepararla dai Lucani» e, infatti, la salsiccia viene anche chiamata lucanica.

Secondo una tradizione lombarda, invece, la sua invenzione sarebbe opera della regina longobarda Teodolinda, che ne avrebbe, poi, regalato la ricetta agli abitanti di Monza; per il Veneto, invece, il percorso è più complesso: pare che a diffondere la lucanica fu, intorno al X-XI secolo, il Principe Arnaldo Zamperetti da Cornedo che, da ambasciatore, recandosi a Rodi in servizio per la Serenissima Repubblica di Venezia, tradusse i volumi culinari di Timachida, trovati in una biblioteca del posto, e grazie a questi apprese l’arte della salsiccia. La diffusione in Grecia si ebbe, molto probabilmente, a seguito della guerra dei Lucani contro i Tarantini in cui la città pugliese, per avere la meglio nello scontro, nel 323 a.C., chiamò in aiuto Alessandro I d’Epiro, il “Molosso”, zio di Alessandro Magno, che riuscì a sconfiggere i nemici, liberando le città ioniche e deportando molte persone del posto che, con il passare del tempo, insegnarono e diffusero nell’intera Grecia la tecnica della “loukanika”. Dal nome “lucanica” è derivato “luganega”, termine che i lombardi, i trentini e i veneti, tutt’oggi, danno a un tipo di salsiccia di piccolo diametro, destinata al consumo immediato.

E in Sicilia? Partendo dal fatto che la salsiccia nasce ovunque dalla necessità di non buttare nulla e di riciclare gli scarti della carne, non possiamo non parlare, per quanto riguarda la nostra isola, della famosa “Salsiccia pasqualora”, insaccato di maiale inserito nella lista dei prodotti agroalimentari tradizionali italiani (P.A.T) del Ministero delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali (Mipaaf). Il suo nome deriva dall’usanza del nostro popolo di utilizzare alcuni tagli della carne di maiale proprio nella settimana precedente la Pasqua. Originaria, probabilmente, dei comuni di Trapani, Erice, Valderice, Paceco, Calatafimi, Alcamo, Castellammare del Golfo, Buseto Palizzolo e San Vito Lo Capo, ormai tutta la Sicilia ne è specialista. Dimenticavamo che lo stesso Virgilio nelle sue Georgiche ebbe a citare la salsiccia pasqualora: “un tipo di carne tagliata in punta di coltello e macinata con piatto a fori larghi alla quale veniva aggiunto sale, pepe nero, peperoncino, vino bianco e semi di finocchio selvatico.

Oltre che cotta alla brace viene consumata cruda come fosse un salamino. Presenta una forma ad U allungata”. Sicilia, faro della cucina.

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Babbaluci, gustosa bontà palermitana

Un omaggio ai babbaluci, piccole lumache terrestri, è d’obbligo anche perché troneggiano tra le pietanze del Festino di Santa Rosalia. Roy Paci & Aretuska cantano: “Viri chi dannu chi fannu i babaluci, ca chi li corna ammuttanu i balati, su n’era lesta a ghittarici na vuci, viri chi dannu chi fannu i babaluci“. Insomma, una sorta di filastrocca che fa riferimento all’ostinatezza di questi piccoli animali. Riguardo il danno che possono produrre, l’unico e solo, è che, non saziando mai, uno tira l’altro, anche più delle ciliegie. Qualche curiosità sull’origine del loro nome: secondo alcuni deriverebbe dall’arabo “babush“, le scarpe da donna con la punta ricurva verso l’alto, da cui babbucce, così come sono chiamate le pantofole di pezza in siciliano; secondo altri, invece, dal greco arcaico “boubalàkion“, bufalo, per via delle corna. L’uso delle lumache a scopo alimentare non va fatto risalire ai romani, che li allevavano in appositi recinti, nutrendoli con carne, farina di farro e mosto cotto, ma ai tempi dei Sicani. Addirittura a Sambuca di Sicilia, nella grotta di Isaredda, sono stati fatti dei ritrovamenti di un reperto di pasto in cui questi gasteropodi la fanno da padroni.

Un tempo la loro pulitura era molto più complessa, oggi che siamo tutti fast si preferisce togliere il velo con uno stuzzicadenti, metterli in una ciotola in acqua tiepida, prendere quelli che fanno capolino dal guscio, porli in un altro contenitore sempre in acqua tiepida, sciacquarli almeno 7 volte, versarli in una pentola con acqua fredda e farli cuocere a fiamma molto bassa. Continuare la cottura per altri 5 minuti, spegnere il fuoco, lasciarli riposare e aggiungere il sale. Ma come si mangiano queste prelibatezze? La maggior parte utilizzando gli stuzzicadenti, ma il vero panormita lo fa “cu scrusciu”, godendo del rumore di questo soddisfatto risucchio. Cucinateli in bianco o con u picchi pacchiu, rosse, e sentirete l’aria invasa da odori inebrianti. E che babbaluci siano.

CAPONATA

La Sicilia è culla di civiltà che l’hanno dominata e amata, lasciandole impronte indelebili in tutti i campi e, soprattutto, in cucina dove ci sono felici contaminazioni tra Oriente e Occidente. Isola dei sapori, invita a godere di tutte le sue prelibatezze, dimenticando l’odiosa e triste dieta. Una delle regine della nostra tavola, di cui vogliamo raccontarvi qualche curiosità e darvi la ricetta, è sicuramente la “caponata di melanzane”, uno dei piatti più rinomati della cucina siciliana che, da fenomeno culinario “locale”, nel 1869 è diventato“globale” grazie alla famiglia Pensabene e, dal 1916, alla Fratelli Contorno, stirpe palermitana di conservieri. Prodotta industrialmente, era inscatolata in lattine realizzate e saldate a mano e così commercializzata e apprezzata in tutto il mondo, in particolare modo negli USA dove gli emigrati siciliani ritrovavano i sapori della loro terra. Diffusa in tutto il Mar Mediterraneo, è generalmente servita come antipasto o contorno, ma a partire dal XVIII secolo diventò piatto unico e accompagnata dal pane. Sull’etimologia varie sono le ipotesi: la prima la lega allo spagnolo “caponada“; la seconda, invece, a “capone“, nome con cui, in alcune zone della Sicilia, viene chiamata la “lampuga“, una specie ittica dalla carne pregiata che veniva servita nelle tavole dell’aristocrazia e condita con la salsa agrodolce tipica della caponata. Ma la versione vegetariana che noi conosciamo è merito dell’estro del popolo che, non potendo permettersi il costoso pesce, lo sostituì, genialmente, con le economiche melanzane, creando il piatto che ancora apprezziamo; la terza e ultima tesi, infine, la collega a “caupone“, dal latino caupona, per indicare le taverne dei marinai. Nel ricettario ottocentesco del napoletano Ippolito Cavalcanti si riporta proprio la ricetta della caponata con verdure, pane impregnato di aceto, olio, sale e zucchero e, anche, il pesce capone. Tante sono le varianti: la agrigentina, la trapanese, la catanese, la messinese, ma la ricetta che vi proponiamo si rifà a quella palermitana.
Ingredienti per 4 persone:
6 melanzane lunghe
1 grosso sedano
1 cipolla
300 g di olive verdi denocciolate
3 cucchiai di capperi sott’aceto
1/2 di salsa di pomodoro
1 bicchiere di aceto
2 cucchiai di zucchero
sale
foglie di basilico per guarnire
Procedimento:
Sciacquate le melanzane, togliete il picciolo assieme alla punta, tagliate in verticale una striscia e riducetele a cubetti piuttosto grossi.
Friggete le melanzane in abbondante olio bollente, fatele sgocciolare su carta assorbente e salate.
Pulite il sedano, eliminando le foglie verdi; tagliatelo a pezzi e sbollentatelo in acqua salata.
In un ampio tegame soffriggete la cipolla affettata e, non appena imbiondita, aggiungete il sedano, precedentemente bollito, le olive tagliate a pezzi, i capperi sott’aceto e la salsa di pomodoro.
Fate cuocere e unite lo zucchero e l’aceto, che farete sfumare.
A cottura quasi ultimata aggiungete i cubetti di melanzane, fateli insaporire per qualche minuto e rimestate delicatamente.
Consumare, preferibilmente, fredda e
Che la caponata sia con voi.