Un omaggio ai babbaluci, piccole lumache terrestri, è d’obbligo anche perché troneggiano tra le pietanze del Festino di Santa Rosalia. Roy Paci & Aretuska cantano: “Viri chi dannu chi fannu i babaluci, ca chi li corna ammuttanu i balati, su n’era lesta a ghittarici na vuci, viri chi dannu chi fannu i babaluci“. Insomma, una sorta di filastrocca che fa riferimento all’ostinatezza di questi piccoli animali. Riguardo il danno che possono produrre, l’unico e solo, è che, non saziando mai, uno tira l’altro, anche più delle ciliegie. Qualche curiosità sull’origine del loro nome: secondo alcuni deriverebbe dall’arabo “babush“, le scarpe da donna con la punta ricurva verso l’alto, da cui babbucce, così come sono chiamate le pantofole di pezza in siciliano; secondo altri, invece, dal greco arcaico “boubalàkion“, bufalo, per via delle corna. L’uso delle lumache a scopo alimentare non va fatto risalire ai romani, che li allevavano in appositi recinti, nutrendoli con carne, farina di farro e mosto cotto, ma ai tempi dei Sicani. Addirittura a Sambuca di Sicilia, nella grotta di Isaredda, sono stati fatti dei ritrovamenti di un reperto di pasto in cui questi gasteropodi la fanno da padroni.

Un tempo la loro pulitura era molto più complessa, oggi che siamo tutti fast si preferisce togliere il velo con uno stuzzicadenti, metterli in una ciotola in acqua tiepida, prendere quelli che fanno capolino dal guscio, porli in un altro contenitore sempre in acqua tiepida, sciacquarli almeno 7 volte, versarli in una pentola con acqua fredda e farli cuocere a fiamma molto bassa. Continuare la cottura per altri 5 minuti, spegnere il fuoco, lasciarli riposare e aggiungere il sale. Ma come si mangiano queste prelibatezze? La maggior parte utilizzando gli stuzzicadenti, ma il vero panormita lo fa “cu scrusciu”, godendo del rumore di questo soddisfatto risucchio. Cucinateli in bianco o con u picchi pacchiu, rosse, e sentirete l’aria invasa da odori inebrianti. E che babbaluci siano.

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